Nicola Ammazzato
Caduto sotto il tetto
i coltelli aperti
La matita in bocca l’urlo
cerchia il braccio sanguina
la morte sbaglia fianco
Nicola Ammazzato
il muro prugna secca
il letto non era pronto
A tenerti gli ossi stretti
insieme vivissimi
(si muovevano come granchi
Crampi nella pelle
nelle ghiandole senza pianti).
la terra piegarsi schiacciare
Mordere il cemento
cavarti i denti
gli organi interni
cercare le scarpe
Che le scale inciampano
E i cornicioni spezzano
il fiato lecca le fondamenta
nel centro de L’Aquila
La scossa va forte
Accelera si mangia
la tenda della doccia
la caffettiera aperta
la terra ha sbattuto la porta cento
i libri saltati dalla mensola trenta
Non bastava ancora
non era sufficiente,
volevano che restava alzata
solo la finestra.

Alessandra Carnaroli
da Ju tarramutu
Piagge (PU), 2011

fossi il limite inutile, l’inganno del confine, fossi l’apertura

generosa del valicare, fossi quella generosità del confine a

schiudersi, disponibilità infinita dell’accedere, del passare,

dell’oltre, del traversare – potessi sporgermi da tutti i balconi

e vedere passare, potessi vedere passare le cose, potessi, sapere

per caso che cosa, l’oggetto che ha trama speciale, che ha l’intreccio

introvabile, lo strappo, introvabile tessitura delle cose perdute –

Alessandra Cava
da rsvp, 2011

Come quando fuori piove

Come quando fuori piove
dentro no.
Esiziale/
essenziale come una metastasi.

Il cuore vale più delle picche
e azzardo fingersi giocatore di poker,
la poesia è come il bridge:
dichiarazione di contratto temporaneo.
(Chevalier accroupi)

I quadri e i fiori?
Ninnoli
tra gli orgasmi e i suicidi.

Alessandro Chiappanuvoli
L’Aquila, 2011

[…] aveva fatto un sogno rosso […]”
Arthur Rimbaud

Mappa dello scontro

allora circuitiamo il corto circuito in zona calda /
garruliamo il paradiso da sempre perduto
in zona d’ombra / sorvoliamo quartieri stipati
di stracci e siringhe e bambini a rischio / le mani
insozziamoci prensili in zona verde / incolliamoci
le vesti tappiamoci il naso lucidiamo missili /
innaffiamo di sangue terre minate in zona rossa /
bombardiamo zone depresse vaneggiamo zone franche
francamente vantaggiose / delittiamo in triplo petto
costrutti pervertiti / svaporiamo in zona a rischio
foraggiando mutazioni mentali / con vuoto a rendere
candeggiamoci la co-scienza / ladies and gentlemen
ripariamoci fuori zona / sordomuti fuori pista
trasmigriamo sazi in zona silenziosa di vergogna

Anna Maria Giancarli
da Sconfinamenti – poesie 1997-2005, 2006

Sta per entrare il sole

So di avere poco tempo – m’è arrivato un fax di Rimbaud –
dopo tre balli di seguito lo accarezzo come seta
concentrando le mie anime in viaggio,
un fruscio di suoni allontana visi siliconati
è rara occasione d’una scheggia di felicità concreta
tanto da riflettersi nell’acqua di morbide lacrime
sprofondate sul foglio caldo di leggerezza e aroma di caffè.
Canta come sorgente il poeta e svela velando
lo sguardo dentro l’oceano della mia cella
in cemento dis/armato da girasoli stra/volti
a toccare il cielo con un dito, pregustando il mistero.
Qui non si fa altro che dimenticare, lo sappiamo
tutti noi che indossiamo rosse toghe di vergogna.
Allora Rimbaud scaccio il liberismo di frustrazioni
allago questa stanza memoriale di petali
perché ho visto il dolore alitare come il vento
per troppe verità sepolte con kamasutra mentali.
So di avere poco tempo – in fretta d’argento mi dipingo –
per tuffarmi negli abissi da un grattacielo d’emozioni.

Anna Maria Giancarli
da Sconfinamenti – poesie 1997-2005, 2006

La Città
illuminata visibile invisibile
insonne insegue sguardi
d’abisso dismisura oltre
le Colonne (sgoccioli di
regime) sillogismi sofismi in
segue dalla soglia
non cuore coraggio calore
solo mano puttana s’insinua
(sai questione di prezzo) solo
carne palpa offresi in vendita
cartellino rosa in vista
su pubblica piazza dilaganti
felici equilibrismi osceni
stampelle per qualche
skranna a Corte
– in omaggio –
Invasa
(alta in difesa)
rimane invasata la
Mente
Senza memoria di sé
senza passato questo
andare non sapendo…
La Città ha transiti veloci

Antonella Doria
da Metro Pólis, 2008

Questo nel dolore è compimento felice.

Chi ama la vita lo conservi e bruci,

ma resti impassibile, di marmo

a contemplare la sventura mia

e il disinganno. Ché solo morte

esiste e a lei m’affido, tranquillo

negatore terrestre delle Stelle.

Dario Bellezza
da Morte segreta, 1976

Due rose

Cogliere due rose sul terrazzo
per trasferire la loro aerea morte
in una bara di cristallo
sarebbe solo crudeltà se del passaggio
un segno non restasse sopra i petali.

Donatella Bisutti
da Penetrali, 1989

L’Aquila ferita e offesa, fiera, non arresa
alienata L’Aquila, morta e resuscitata
città sventrata che non dimentica le sue sorelle.
Onna, Paganica, Assergi,
isole di macerie e speranza.
Non bastano parole e silenzi
a dire quante voci contare, a smarcare gli sfregi.
L’Aquila chiama musica, chiama
i poeti, le arti bianche, a raccolta,
nere tragiche, magiche alchimie, camuffamenti.
Chiama a raccolta i suoi abitanti,
antiche virtù antenate.
Non c’è entropia che tenga.
Chi ha spirito si sacrifichi comunque,
mentre brucia l’incenso nelle chiese
e la gente, i pompieri e gli architetti
si rimboccano le maniche come si può.
Come si può. E nulla vale più di questo
darsi pace e darsi guerra.
Una guerra trasparente, diafana, come straniata
straniera sonnambula nella zona rossa dell’anima.
Così ti ricordo Aquila in volo,
come polvere sollevata al cielo,
imprecavi con la moltitudine
nel prisma delle sue paure ritrovando luce, scomposta
ricomposta nell’arcobaleno delle sue figlie.
Ritorna, L’Aquila madre con il dolore amata,
con il dolore armata.
Il non senso delle stanze vuote,
delle facciate storpie e transennate,
l’ossario dei palazzi sfranti,
quel non senso di rame che risuona.
Sul vuoto si ricostruisce un mito,
anche senza storia si riproduce.
Ama di nuovo L’Aquila
perché tra vita e morte non resta che la strada.
Guardala come resiste.
Lo avresti detto? Guardala, come è fiera.
Non per scherno, né per presunzione
ma per il sangue d’Abruzzo,
per il suo cuore di aria e terra, di fuoco e acqua.

Elena Ribet
Roma, 2012

Il tempo è questo mio e senza termine:
nessuno m’ha preceduto nessuno mi seguirà
da solo ho inventato le storie
compresi i diluvi comprese le ère felici
in me la forza e l’errore.
Sono Ercole Idra Buddha seduto
Lucifero fra le fiamme.
M’è toccato di perdermi nel labirinto
m’è riuscito di uccidere il mostro
ho potuto anche salvarmi
grazie a un filo colorato.
Ma sono infinite le fatiche
innumerevoli i labirinti
inestinguibili i mostri:
è tutta in me la storia
promessa tentazione smarrimento
incessante guerra che forse
non è più di un gioco.

Elio Pecora
da Motivetto, 1978

I padroni della terra

Spianate e immense lacune
lentamente riempite di animali piante
liquidi salati e dolci
indotti a voci rovinose o sussurri
così come funerea calma silente
putridi stagni
e cartocci di pietra aguzzi
altissimi e freddi
da valicare perforare violare sprecare.
Solo dopo
materia sconvolta
concede tregua di spazio percepito piatto.
In quarantacinque gradi d’angolo
accolti incauti passi transeunti
sulla crosta spessa
cercando contatto.
Progetto mai sazio compresso infuocato
per i capelli scuote
spezza il filo a piombo
a spaglio risemina abitanti e le loro cose
sassaglia inversa e speculare
ordine di strage nell’ira innocente.
I gradi si torcono stringono allargano
si torna a spazio circolare
giro di vite
pochi secondi a casaccio e poi guardare:
quel che è fatto è fatto.
Dal manto ancora caldo
siano raccolti i resti.
Più facile seppellire i morti
che dimenticare le case.
Tornerebbe con piacere
all’origine
nucleo di fuoco potente e molle
tesoro vello terra e polvere
e vita non sempre è vita.

Fausta Squatriti
Milano, febbraio 2012

Il valore delle nuvole

vaporosi vagoni vuoti
viaggiano a vista
sopra viventi vacillanti
da vertici vanitosi vessati
con vanti divini
– ¬veleno nelle vene –
o voi,
nuvole allegoriche,
ventando, avanti,
vendicateci!
(invano in invettive inveendo…)

Francesco Muzzioli
Roma, 2012

La luce della candela riflessa
è circostanza delle cose.

L’idea di immobilità profonda
appartiene al tempo
– il tempo scorre immobile
(stasi e movimento – movimento della stasi)
e gli uomini scorrono nel tempo
lasciando tracce che si perdono
in una desertificazione delle ore
e in un deserto delle ossa

‘Il regno della stasi
è fatto di cubi, come il cielo è fatto di sfere’.

Ro-
vesciando un postulato
di Sinisgalli:
Perché la natura si è sfasciata?
Perché la poesia ne ha perso il controllo.

Franco Cavallo
da Frammenti dell’horror vacui, 1995

Simul
(che impoemetto – in – scena così completabile)

… si ordinavano e si disordinavano
credevano d’essere i primi e gli ultimi
e dell’infiniverso i riuniversificatori

e il tale era il quale e talità
la qualità – e quandovunque viviamo
proprio durante questa nostra vita
tutto accadrà pensavano e ioìvano –
e io per tutti i futurituri
risponderò e per tutti i compassati
nelle centrìferie del qualcosa
tutti i sogni sognati e sognabili
anche dopo che io sarò venuto
irrealizzeremo – què la vida
es un sueño y los sueños vida son…

Gianni Toti
da Letteratura degli anni ottanta (antologia), 1985

4. (da canta Fredo)

Perdere è più difficile, credetemi,
voi che credete di vincere
(e chiedetevi, domani,
fra il break e il lunch, che cosa
vi perdete, e dove),
anche in questa città che ho liberato anch’io,
nei tempi dei tempi, anche qui
i senzatetto si sono attrezzati col cane, a uno,
a un altro, non gli ho dato una lira,
non ho cacciato il grano,
no, che i problemi non è così che si risolvono,
gli ho detto dicendolo in me,
camminando, «bisogna lottare,
altro che elemosina», e poi
mi sono infilato in un bar
a scolarmi l’aperitivo (era l’ora), servito
con patatine e noccioline e, ah!,
teneri gambi di sedano,
trance di peperone rosso, ah!

Giuliano Mesa
da Improvviso e dopo
(poesie 1992-1995)

Anubi è risorto

Gli sciacalli, con ghigno
beffardo, saccheggiano,
protetti con leggi
dettate dal loro dio,
al di sopra
di una montagna,
al di sopra di tutti.
Non protestare.
Non ribellarti.
Tutto è lecito
per la sicurezza.
La vostra sicurezza,
sinonimo di libertà
a noi cara,
accrescerà il potere
della nostra presenza,
che vi soffocherà,
nascosto in sfilate
di soccorso e bontà.
I nostri doni
si trasformeranno
in prigioni dorate
reprimendo l’istinto di pensare … di agire.

Fastidio alias Lorenzo Di Marcantonio
Ministero del Disturbo
L’Aquila, 2011

(non vuole essere

visto mentre vede

così della casetta, della casamatta calcinata

riprende la scocca senza finestra

dove non ci vive e meno vince

la ramatura, non si sposta e si sposta

la griglia di perimetro – cattura

le radioonde – grammatica / lontana –

che fanno i cacciatori in ciascuna

domenica, gara a chi centra il piccolo)

Marco Giovenale
da In rebus, 2012

vanno nel giardino così cambiandolo

e le troppe felci di troppi metri

di verità di nero dato al sole

scóntano dentro la propria funzione

di terra: ridire, disfigurare

da zero a zucchero a frutto : un secondo

zero, più pieno, per cui c’è guerra

Marco Giovenale
da In rebus, 2012

«non è più libero di separare
da mondo mondo».

insetto che abitua due ciechi.
(che dopo se lo contendono).

per quanto sia in alto nel corpo
quello che la nega,
la cosa da dire è detta.

di tutti i personaggi, non c’è la maschera
che tradisce, passando il sasso di bocca.

un pezzo di lama è in tutti

Marco Giovenale
da In rebus, 2012

Voce Vox Voice Voix Voz

VOCE che vuole rompere il muro della generale indifferenza
VOX che è il giovane ruggito di solitarie anime in pena
VOICE che dice “brutti stronzi!” e vuole fare luce sul lavoro che non c’è
VOIX che è il soffio precario del vivere stremato
VOZ che parla dei nostri sogni in fuga dall’inconscio
VOCE di massa in movimento, ancora amica della lotta
VOX che non vuole più commiserarsi nel fallimento di ogni speranza
VOICE che salta fuori dal coro e non sta più al gioco
VOIX che non resiste alla tentazione della verità, qualunque essa sia
VOZ che ascolta sibilline risposte che volano via nel vento
VOCE in azione rapida che è alla ricerca di un destino
VOX forzata, maleducata, disturbata in questo caos organizzato chiamato società
VOICE che passa tra volti sconosciuti e sentimenti confusi
VOIX di chi esce di casa e non ha un posto dove andare
VOZ di chi desidera tutto perché ormai non ha nulla da perdere

Marco Palladini
Roma, 2012

Questa, la luna

Lei riempiva le cavità di lui come una bestia riempie la sua tana
lui la portava come una venatura di argilla
pullulante di piccoli animali.
Poi la notte allungava la sua mole di assi sui soffitti e sulle orditure
dei solai che sorreggono tutta la struttura e solo gli iris pieni
della stessa abbondanza
si ripiegavano perché più dolce e impervio
fosse lo scomparire.
La luna le portava le visioni. Lei non riconosceva
i sessi, gli diceva so che ti salverai
e mi lascerai qui come energie che gonfiano la terra, come intonaci molli
non appena le voci inizieranno
a diradare e si sentirà solo
il sussurro oltreumano della polveriera. Tu mi rinnegherai
prima che il tuo destino abbia consolidato la sua salvezza.
Ma lei vinta ne regge la struttura morale nonostante il crollo
di torre campanaria e lo vede
comparire ogni notte sotto la luna come un grappolo di larve
la fiammella di un arto non sviluppato
e la bellezza del sorriso rotta da una traccia umana.
Nonostante il suo nome sia spento
lei lo chiama, senza nome
lo chiama e senza volto – con la luna soltanto, con la cenere e con la solitudine di un astro.

Maria Grazia Calandrone
Roma, 12 aprile 2009

Nigredo

Se il veggente s’inebria, scrivàno,
sii cauto per lui. Incatena i venti
se troppo gli scompigliano la chioma
perché il veggente è donna, e ben lo seppe
l’ultimo dei profeti. Ricongiunti
essi saranno ormai. E non dall’ala
del genio, forse, né dal ritmo arcano
che resuscita braci in grandi fuochi,
ma da un odore di catrame e corde
di navi, voci, timonieri e arcangeli
che leggono la rotta fra le stelle
e ti guidano a porti sconosciuti,
odorosi di ambre. E là t’ingaggi
fra turbe armate senza nome, tanto
è sconosciuta la battaglia e il capo
quanto sicura questa furia, e l’impeto
che ti assomiglia al sole e all’uragano.

Maria Luisa Spaziani
da L’occhio del ciclone, 1970

Il destino

Fu allora che il destino mi volle prendere per mano,
da questo istante, disse, la tua bianca esistenza
in me si fonde, assume una forma mai vista –
da questo istante intuisci l’infinito dei cieli.

Decifrare dei rebus è stata la tua vita,
eccoti ora la chiave, un solo sole ti illumina,
guarda di che colore si sono fatti i fiori
quando alle tue pupille io solo ho detto apritevi –

La morte è un radicale mozzafiato
ma ti è dato di scorgere il rovescio della medaglia –
ti hanno detto, bambina, che Dio è in ogni cosa
ed era un puro apologo, sinonimo di poesia –

Sei stata imprigionata in un castello di nebbie
con la mente allo stadio di pipistrello cieco –
ora cammina, alzati, ti dico. Prima di te l’ho detto
a Euridice, a Lazzaro, a ogni primavera stregata.

Maria Luisa Spaziani
da Poesie, 1954-1996

cieli

quando soffia il
nuvole a pezzi
macchie manipolate
senza contorni
sfocati sparpagliate
opachi significati
di qua di là
dimentica la sensazione
l’istante estate
deformazione senza
trasformazione il
strappano i fiori
tanti giorni sparsi
volando basso

Nanni Balestrini
da Poesia italiana della contraddizione (antologia), 1989

da Speculando sull’edilizia dell’immateriale n. 1: dal 90 al 99%
Al 90%
eclissi liquida
cola da dipinti metafisicimmateriali

e si
solidifica

in staccionate di glassa d’ombra
che tratteggiano i perimetri di ghetti

(…)

Grottesche spirali
di filo spinato elettrico auto divorante
si dipanano senza alcun residuo
di simmetria o proporzione lungo tutta
la cima del muro immateriale della divisione,
una forma-pensiero ricalcante
l’esempio e l’effetto
di mura israelitiche

attraverso la città che venne eretta
ricalcando cartografia di Gerusalemme (…).

Assurdo alias Paolo Paoletti
Ministero del Disturbo
L’Aquila, 2011

(Resto, si vede,

viaggiatore di terraferma,

che scruta il mare da lontano

e ne controlla il movimento.

Ma c’è chi crede, qui,

che il mare incanti

chi lo guarda

e gli faccia, prima o poi,

prendere il largo.)

Paolo Ruffilli
da Diario di Normandia, 1990

Sempre caro mi fu stare qui chiusa
e questo speco ch’è camera oscura,
guardo d’amante che musa m’includa.
Ma sedendo e mimando la sua parte
anch’io mi miro per occhi sovrumani,
godendo diva la profonda quiete
ove io mi fingo un fallo fra le cosce,
poeta obtorto collo, e come il vento
odo frusciare sulle labbra mie quello
suono di lui che a questa straba voce
vo comparando: e mi sovvien gli eterni
fiati in fuga da silvie morte lune,
presente e viva di rimorsi imago.
Annega immenso il pensier mio nel suo:
e sprofondar spaura in dolce specchio.

EPPURE ANCORA IN ME CERCANO IL BELLO

Rosaria Lo Russo
da Lo dittatore amore, 2004

La mezza città

Se vieni a visitarla
con passi da straniero
e dita asciutte da dottore,
L’Aquila è ferma,
una cornice rotta
un guscio senza pelle.
L’Aquila è vuota.
Ma se ti avvicini
con la delicatezza dell’innamorato
senti un debole respiro
che odora di storia
di neve, di pane quotidiano
e di noi.
Figli unici
in mezzo a una strada
a cercare la strada.
Le restiamo attaccati
ognuno col suo sangue.
Le case sono amanti
sorpresi mezzi nudi
per sempre
nel cuore della notte.
Agli occhi di chi ha visto
L’Aquila è semplicemente
piena
di silenzi.
Si vive in quel traslucido equilibrio
tra speranza e accanimento
tra voglia e disincanto
e memoria, e deriva e nido e
dignità
nel non staccare la spina.
Sul suo corpo freddo
ferito
si accendono
le luci di Natale

Ugo Capezzali
L’Aquila, 2010

Utopia

Nella prospettiva che la vita

possa interrompersi e che

inconfessabili mutazioni genetiche

possano smemorare della forma

ogni specie

vanno assai di moda le enciclopedie.

Quali inedite arche della natura

che almeno ci permetteranno

di salvare nelle illustrazioni

gli ultimi tipi di universali.

Valentino Zeichen
da Ricreazione, 1979

i cani della polizia mi stanno addosso, e i merletti
agli orli delle case proiettati sul muro dal sole
sembrano le note della notte che non hanno lasciato il giorno
quale slabbro posso sopportare alle mie illusioni?
IL MIO TEMPO DELLA VIOLENZA
STA FINENDO E VORREI ANDARMENE CON TE
e vorrei rimanere seria con te
e vorrei resistere con te
in questo verde spiraglio di
fertile speranza
quando voglio venire con te
sento qualcosa di nudo,
un altro

io sono marco polo umanonauta
con tutto il piacere dell’ermeneutica,
tra le storie che ho amato interpretare quella
in cui ero la ragazza semplice e a volte complessata o
storta senza risolvermi mai a scoprire credere emettere che
una sedia è una sedia e non
la (so) stanza d’ingresso di un senso
tutta adornata di semplici aneddoti
o imbrattata della Storia e delle sue tristi chincaglierie
prima galoppo poi in una stanza a cogitare
come inviare truppe e controlli
cani addestrati a mordere il morso alla libertà

…gli addestratori della massa e i loro esperimenti umanisti!

Isabella Tomassi
L’Aquila, 2011

In controcanto

Dove i ranuncoli dischiudono fragori
dentro ritagli di ritrosia ritrita

un’erma di giaggioli è bercio che s’alluma
nell’igneo barbaglio dell’eluvio

E l’alba narra l’oblio dei campi arati
le policromie di ocelli nel pruname

il guizzo blu del muscari arciolato
tra le calendule con ligule sfibrate

E tasto il canto di un cielogranato
che s-tempra rosse melodie in lacche sacre

dentro scorci di cerulee campiture
graffite da grafemi di sospiri

E in controcanto
l’arpeggio dell’arsiccio

serpeggia su fumosi pentagrammi
e arroventa le sillabe del vuoto

Tra cenere d’estasi
si fa corpo l’assenza

e sc-arti di fiamme dipingono sul muro
le incandescenti fralezze del calore.

Franca Battista
da Antologia della poesia femminile in Italia, 2007

Ma non è il caso di agitarsi – da un pezzo

i profeti hanno smesso di mangiare le cavallette dei deserti,

nel VIRUS CIRCUS c’è (quasi) per tutti da bere e da mangiare.

Baco del millennio

Buco nel cervello

Bing Bang & Carosello:

perché se la lingua è un virus,

l’universo è sempre e ancora un rebus.

Tiziana Colusso
da Almanacco Odradek, 2006

6.

Superata quella vallata enorme, bellissima,

intersecata da argentee venature d’acqua,

porgendo gli orecchi al suon della sua voce

e sempre aspirando l’odore delicato

che emanava dal suo corpo,

lei, un po’ più in alto, a destra, quasi sospesa,

e io sulla sua scia,

apparve davanti a noi una foresta densa e tenebrosa

e la dovemmo faticosamente traversare

sapendo tuttavia che più lontano, a nord,

avremmo incontrato diversi piccoli villaggi

dove riposare, prima di affrontare l’immenso altopiano

che già torreggiava all’orizzonte contro il cielo,

ma fu lei intanto

con occhi lucenti, gai e pien d’amore

ad accostarsi verso di me.

Lamberto Pignotti
da In altro modo, 2001

Il sogno giusto

Se faccio un sogno, e poi

me ne nascono versi,

quei versi sono il sogno

che sognate con me.

Attenti ad incarnarvi

nel sogno giusto. Nascono

da una pagina scritta, in fitta schiera,

mostri, presagi o angeli.

Maria Luisa Spaziani
da I fasti dell’ortica, 1996

L’infinito                                            (imitazione e tradimento)

Un colle, poi una siepe, un orizzonte:

Uno scenario dello sguardo, muto:

Ansia dell’ansia della mente, estremo

Luogo dell’oggi, gorgo di uno schermo

Cinetelevisivo, che si sfoca

E si sfioca, s’inabissa, si fissa

In uno spazio vuoto, silenzioso.

Niente più colli, né orizzonti o siepi:

Spento suono il pensiero che si esclude.

Nulla mi fingo che non finsi, nulla

Che non vedessi cieco, nel terrore

Del mio niente fantastico, col vento

Tra le piante, randagio, in un’eterna

Comparazione tra l’eterno e questa

Viva stagione, mare naufragato.

Mario Lunetta
da Catastrofette, gennaio 1994

Tanto vale che tu pensi una cosa o l’altra

di me; non sono alla mercé del caso, né

voglio la tua interpretazione, non avendone alcuna

io stessa a sopraffarmi. Ti ritiri nella

tua cella febbricitante, come un microscopico angelo

ingaggi battaglia con i miei pensieri, come se

fossero per il mio rivoluzionario cuore, una

promiscua campana. L’inferno stesso è ciò che

vuoi: un ago conficcato nella necessità, prevedendo

che non farò di meglio di quanto vuoi.

Amelia Rosselli
da Sleep, 1992

XV

La carne è un abisso che tira in mille modi.

Così intendi della libidine dello Stato.

XVIII

L’eternità non ha termine o fine alcuno.

E però le poesie non hanno senso allegorico.

XX

Ancora non resuscita questo Lazzaro.

Io vi dico che bisogna rompere questo sepolcro.

Elio Pagliarani
da Epigrammi ferraresi, 1987

l’inu.tel

c’entra, c’entra e ballònzola nel mezzo

dei ritrovamenti e dei perdimenti

di nuovo, dilatati per via cavo o

per via vista, ti prego, non insista

intorno, intorno alla continuità

simbolica e di stato, ma occupato,

affaccendato, ma in tutt’altra storia

surreale, nel bel roseo sol che sale

socialdemocratico e coloniale

slunga all’inverosimile d’aspetto

un urlo che dal tanto corpo escàndesce e

c’entra, c’entra il crepuscolo di noi

se poi, come niente, telefoniamoci,

diciamoci del passo che ne segue,

del tempo interpretato e d’uno storico

materialismo storico dell’oggi,

come niente, quotidiano, ma strano […]

Michele Fianco
da Tutti Frutti, 1999

io sono una carta a quadrettini

io sono una carta colorata

io sono una carta velina

io sono una carta strappata

io sono una carta assorbente

io sono una carta vetrata

io sono una carta opaca

io sono una carta perforata

io sono una carta trasparente

io sono una carta piegata

io sono una carta semplice

io sono una carta bollata

io sono una carta da imballaggio

io sono una carta da lettera

io sono una carta da parato

io sono una carta

io sono un cartone

un cartoncino

una cartuccia

e va… sparata!!

Tomaso Binga
da Poesia muta, 1996

3.

considera che questo non è più questo

che fuori non è rimasto nulla

fuori più nulla

la strada l’asfalto la polvere

dentro la culla vecchia vuota

immagina che questo non può tornare

nemmeno come un’immagine

dentro più nulla

le ciglia le palpebre l’occhio

fuori la luce calda vuota

considera che questo non è più questo

fuori non è rimasto nulla

dentro più nulla

breve lunga breve, breve lunga breve

lunga breve breve, breve breve breve

Giuliano Mesa
da Improvviso e dopo – poesie 1992-1995

Faccio la poesia per sfinimento

e non certo per duttile interesse

in quanto sono buona da mangiare

come l’edera folta sul camino

vien percorsa dai germi dell’estate

così come appannaggio della zona

hanno messo la mia calcomania

su un muro desolato.

Alda Merini
da La poesia luogo del nulla, 1999

11.

Amo i gabbiani, pensarli quando al tramonto tornano le

barche

dalla pesca le avanzano i gabbiani e intorno trasvolano voci

d’ali bianche, allegri e affamati, ma non entrano in porto

e li vedi nel pallore della sera riprendere il largo della baia.

Scortiamo i caldi saputi pensieri al loro porto, la mente

è universo per gabbiani e barche e pesci morti.

Alfredo Giuliani
da Poesia italiana della contraddizione (antologia), 1989

Alta marea

Abbassa la guardia, mia voce scampata

a ciò che non sapemmo impedire.

Sarai memoria del futuro o fredda

rapinatrice di fossili, morìa

che invade lesto piede la spiaggia

dove poco fa vita sfusa stormiva.

Corre voce d’un sogno appena sfatto

e la sera ci scansa, in calma scesa.

Lasciamole con la voracità dell’acqua

il lungo giorno d’estate goduto

a coltivare l’indegnità dell’oltre notte.

Biancamaria Frabotta
da La viandanza, 1995

da: Due imitazioni, da Natan Zach

 

è anche un vino

la poesia può dipingere un quadro:

le cime illuminate da un olivo

decapitato, un crepuscolo che arde,

un albero che è oscuro: che è anche un vino:

può essere, in sé, un quadro, una visione

di parole, in un magico, in un fertile

paesaggio: una veduta è molto simile

alla tristezza o alla gioia: però

non a questa né a quella, in verità:

ma il ritmo di una cosa che, una volta,

si cantava alla gioia o alla tristezza:

che era forse un silenzio, e si formava

quando il ritmo, che si cristallizzava,

diventava se stesso: era una cosa

molto alla gioia o alla tristezza simile:

Edoardo Sanguineti
Corollario, 1997

Difficile il risveglio. Apro a metà le palpebre

e già Mozart s’insinua dalla finestra accanto.

Ah sì, mi alzo subito. Proprio questo è il pianeta

(tra i tanti possibili) che avrei scelto per nascere.

In questa pallina persa in pulviscoli stellari

c’è il nero e il bianco, le estasi e i massacri.

In quest’alba dimentico la storia e i suoi bilanci,

qui tu sei nato e il bianco vince il nero.

Maria Luisa Spaziani
da
La traversata dell’oasi –  poesie d’amore, 1998-2001

Elegia

Se tutto ciò che cresce e brucia è brace,

amore è visione del rogo.

Pensa all’estate,

che nasce dissanguandosi

in una sorridente emorragia di luce.

Ciò che ti è caro muore, ciò che muore

ti è caro, se qualcosa ti è caro,

è perché muore. Ed ecco il corollario:

«Ciò che ti è caro, è solo la sua morte».

E’ sera, nella stanza dei miei figli.

Disteso accanto a loro, li ascolto cinguettare.

Un bosco al buio. Posano

sui miei rami il peso caldo e vivo della voce,

un peso-volo trepidante.

O devo credere che siano solo le punte

incandescenti di un fuoco mezzo spento,

crollato, mezzo freddo, di un tizzone

già nero e muto, già muto,

mezzo morto?

Valerio Magrelli
da Disturbi del sistema binario, 2006

Velocità rappresa

nel segno di un segnale

manifesto senza tempo

la sfera rossa

emerge dal muro colmo

(quante ombre in un muro?)

si ripercuote un’eco

giustizia meno giustizia

uguale ergo fuoco

Bruno Conte
da Poesia a comizio, 2008

Imperdonanza

Il grandioso teremoto

col piacevole suo moto cantavano

in coro i lubrichi burocrati barocchi

briachi imbriachi nella laica albagia

del potere nell’arcadia impudica del

darglieloabere anche dai pozzi

avvelenati dalla codarda menzogna

profusa diffusa confusa a confusione

sconfusionata di quanti bevitori impenitenti

sempre assetati e arsurati recitano la

farsa del non si poteva non si non

si sapeva non si deve ammettere

riconoscere punire condannare ma

solo fare elemosine ai più e lasciva

perdonanza ai colpevoli profittatori

assassini che tolgono la pietra e il

cemento e allungano la mano ancora

per prendere e arraffare impudenti

impuniti e perdonai sino al prossimo

grazioso terremoto col piacevole

suo moto… e così sia!

Ignazio Delogu
da La parola che ricostruisce (poeti italiani per L’Aquila), 2010

Sei aprile,

ma fino a un certo punto. Notte,

intanto. Che dietro no,

non si porta un giorno,

nemmeno uno,

da mangiare, da vestire… Ecco,

sei aprile, anzi,

lo saresti stato, aprile,

se il silenzio, certo,

lo avessi detto prima.

Se non fossi stato ladro,

dentro, di tutti.

E di tutto fai un letto

di chiacchiere. Lacrime,

muscoli e scale e solai,

fin oltre lo spasimo.

Sarai aprile, ma vattene.

A primavera

non è detto debba crollare,

così, un fiore.

E se pure,

non farebbe questo rumore.

Michele Fianco
da La parola che ricostruisce (poeti italiani per L’Aquila), 2010

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